In Occidente i toni bellicisti si alternano con quelli più possibilisti. Il tavolo negoziale è meno lontano ma ancora da approntare. In attesa delle elezioni americane. Mentre appaiono sempre più chiare le responsabilità del fallimento diplomatico del 2022

Forse non è mai troppo tardi ma ogni giorno che passa rischia di essere di troppo. Non siamo ancora all’evidenza che un conflitto sanguinoso non è quasi mai la maniera migliore per risolvere le controversie geopolitiche ma qui e là dei bagliori di realismo si accendono nel mondo delle leadership euroamericane. Certezze granitiche sull’esito della guerra in Ucraina stanno lasciando il posto a prefigurazioni più ponderate.

A Bruxelles Josep Borrell, che ha fatto del sostegno militare a Kiev il cuore della sua azione “diplomatica”, certo della vittoria sul campo di Zelensky, si acconcia ora ad attendere l’esito delle variabili che incombono, spostando al dopo-elezioni negli Stati Uniti di novembre una possibile svolta negoziale. Il numero uno della Nato Jens Stoltenberg, fianco a fianco col presidente ucraino, preso atto delle difficoltà delle truppe di Kiev, può esprimere adesso, come massimo incoraggiamento, la speranza che “non è troppo tardi per la vittoria ucraina”. Un accenno di realismo che trapela anche dalle parole di Antony Blinken che da Ryad, un tempo comfort zone per tutte le strategie di Washington, fa sapere che “non appena la Russia dimostrerà di voler sinceramente negoziare, noi saremo sicuramente lì, e credo che anche gli ucraini saranno lì”.

Non c’è bisogno di troppi neuroni per ricordare che quella condizione esisteva già due anni fa, un mese dopo l’ingresso dell’armata russa in Ucraina. Era il tavolo negoziale di Istanbul, patrocinato dal presidente turco Erdogan e arrivato a un passo dall’accordo che avrebbe fermato i combattimenti, mettendo sulla bilancia la neutralità dell’Ucraina (fuori dalla Nato) e la sua integrità territoriale con l’eccezione di Donetsk e Lugansk, ma tenendo Kherson e Zaporizhia, e congelando per qualche lustro lo status della Crimea. Soluzione che andava bene a Mosca e a Kiev ma non a qualche incendiario leader occidentale. Samuel Charap, pesantissima firma americana della RAND Corporation, e Sergey Radchenko, della Johns Hopkins University, hanno appena ricostruito su Foreign Affairs, con documenti di prima mano, i molti passi compiuti per arrivare a un’intesa tra negoziatori russi e ucraini dopo le primissime settimane di guerra. E il lavorìo che si produsse per farli arenare.

Anche sulla base di queste ricostruzioni la Storia assegnerà i giusti carichi di responsabilità a chi ha voluto perdere l’occasione di scongiurare la prosecuzione del conflitto. Sarà un consuntivo sorprendente per molti, soprattutto in Europa, dove gli artefici del suo impoverimento, della sua rinforzata subalternità e il suo temibile riarmo in chiave nazionale avranno qualche difficoltà a spiegare scelte che si sono già rivelate autolesioniste.

Sarà davvero così? È il passato anche recente che ce lo insegna. Anche quando la Storia viene utilizzata maldestramente, come arma di guerra. Lo scrive Benoit Bréville nel suo editoriale di aprile. “Per due anni la guerra in Ucraina è stata paragonata al primo conflitto mondiale, perché anch’essa si svolse in trincee fangose; alla crisi missilistica cubana (ottobre 1962) che minacciò l’umanità con l’olocausto nucleare; a tutti gli interventi esterni dell’URSS (Berlino nel 1953, Budapest nel 1956, Praga nel 1968, Kabul nel 1979); alla guerra Iran-Iraq tra due Stati confinanti (1980-1988); a quello del Kosovo che cercava di liberarsi dalla morsa della Serbia… Volodymyr Zelensky, con i suoi comunicatori, eccelle in questo giochino. Carestia del 1933, Grande Terrore stalinista, conflitti in Afghanistan, Cecenia o Siria, e perfino l’incidente di Chernobyl: ogni tragedia storica gli fa pensare all’invasione del suo Paese. Il presidente ucraino sa anche adattare i suoi riferimenti al suo pubblico. Davanti al Congresso americano ha parlato degli attacchi a Pearl Harbor e dell’11 settembre. Di fronte ai deputati belgi cita la battaglia di Ypres. A Madrid è la guerra civile spagnola, il massacro di Guernica; e nella Repubblica Ceca, la Primavera di Praga”.

Il direttore di Le Monde Diplomatique non si limita a stigmatizzare il presidente ucraino. Chiama in causa un vizio ricorrente delle classi dirigenti occidentali del Secondo dopoguerra. Perché – spiega – questa valanga di analogie non ha solo un effetto retorico. La scelta dei confronti a volte pesa sulle decisioni strategiche stesse. Viene citato il politologo Yuen Foong Khong che ha dimostrato come il ricordo della Conferenza di Monaco abbia permeato il pensiero dei leader politici americani durante la guerra del Vietnam. Non solo i loro discorsi, ma anche le loro riflessioni, i loro dibattiti, al punto da giustificare ai loro occhi la necessità di un intervento militare. Se avessero pensato all’esperienza francese in Indocina negli anni ’50 e alla sconfitta di Dien Bien Phu, forse avrebbero percepito questo Paese come inespugnabile, il che li avrebbe indotti a una maggiore cautela. Ma “i leader politici sono storici modesti, il loro repertorio di paralleli storici è limitato, quindi scelgono e applicano le analogie sbagliate”.

Gli storici di professione hanno invece come stella polare la sequenza degli atti che porta allo svolgimento (drammatico) dei fatti. A futura memoria valga il breve estratto dall’ultimo saggio di John Mearsheimer, Perché le Grandi potenze si fanno la guerra. Per Mearsheimer, università di Chicago, uno dei massimi teorici contemporanei di Relazioni internazionali, la caduta cronologica degli avvenimenti spiega perché siamo arrivati a questo punto.

Il conflitto è iniziato nel febbraio 2014, sei anni dopo che la NATO aveva annunciato il piano di adesione dell’Ucraina. Putin ha cercato di risolvere la controversia innanzitutto attraverso la diplomazia, cercando di convincere gli Stati Uniti, che hanno sponsorizzato l’ingresso di Kiev nell’Alleanza, a rinunciarvi. Washington ha deciso al contrario di lavorare di più, armando e addestrando l’esercito ucraino e invitandolo a partecipare alle manovre militari della NATO. Temendo che l’Ucraina diventasse un membro di fatto, Mosca ha inviato una lettera il 17 dicembre 2021 all’organizzazione transatlantica e al presidente Joseph Biden chiedendo assicurazione scritta che l’Ucraina sarebbe rimasta fuori dall’Alleanza e avrebbe osservato una rigorosa neutralità. Al che il segretario di Stato Antony Blinken ha risposto il 26 gennaio 2022: ‘Non c’è un cambiamento, non ci sarà un cambiamento’. Un mese dopo, la Russia ha attaccato l’Ucraina”.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri