Brown revolution

Esattamente dieci anni fa il cambio di regime a Kiev. Celebrata in tutto l'Occidente come inno alla libertà, l'Euromaidan saldava anche gli interessi degli oligarchi con quelli della destra filo-nazista. Finendo col condizionare sistematicamente la vita politica ucraina

Colpo di Stato, come si dice in Russia? Protesta popolare in base a un afflato europeista, come dice la stampa occidentale? Rivoluzione della dignità nazionale, come pensano gli ucraini? Si discuterà per moltissimo tempo sull’Euromaidan che ha compiuto dieci anni in questi giorni, anche perché il carico politico ed emotivo di quegli eventi ha per ora frenato un esame più freddo e razionale. Tra gli elementi che andranno studiati c’è anche il ruolo che gli oligarchi ucraini giocarono nelle proteste e nei disordini che portarono ad annullare l’accordo raggiunto il 21 febbraio 2014, dopo il massacro di 100 persone, tra il presidente Janukovich e i leader dell’opposizione (Vitaly Klitschko, Oleh Tiahnybok e Arseniy Jatsenyuk) con la mediazione della tronca europea costituita dai ministri degli Esteri di Polonia (Radoslaw Sikorski, tornato allo stesso dicastero pochi mesi fa con il cambio di Governo a Varsavia), Francia (Laurent Fabius) e Germania (Frank-Walter Steinmeier, nel 2017 diventato presidente federale). E che infine spinsero lo stesso Janukovich a fuggire in Russia.

Che gli oligarchi abbiano giocato una parte importante è ormai acclarato. Lo sostengono in pari misura osservatori critici dell’Euromaidan come Ivan Katchanovski, ucraino d’origine e docente di Scienze Politiche all’Università di Ottawa o pienamente partecipi del nuovo corso ucraino come Serhiy Leshchenko, giornalista, attivista anti-corruzione, parlamentare con Petro Poroshenko e poi vicino a Volodymyr Zelensky, autore di uno studio per lo European Council on Foreign Relations. Resta da stabilire, semmai, come tutto ciò avvenne.

S’incrociarono, in quelle settimane, oltre alla volontà popolare, anche le ambizioni degli uomini che avevano dominato la scena politica ed economica dell’Ucraina indipendente, e che dal 2010, ovvero dall’ascesa di Viktor Janukovich, avevano dovuto fare i conti con un vorace clan che agiva addirittura dalla presidenza del Paese e che da lì, come spiega bene appunto Leshchenko, aveva messo le mani su alcune banche, usate poi come cassaforti per i capitali lucrati con privatizzazioni finte o corrotte. Alcuni degli oligarchi di prima fila avevano dovuto scendere a patti, e nelle proteste di Euromaidan vedevano l’occasione per sbarazzarsi del clan Janukovich: per esempio Rinat Akhmetov, il re dell’acciaio, l’uomo più ricco d’Ucraina, o Dmytro Firtash, il boss del gas, che con i loro media esaltarono le proteste mostrando le violenze della polizia. Oppure oligarchi al tempo considerati di seconda fila ma che avevano larga pratica della politica ucraina e dei suoi meandri, come l’industriale dolciario Pietro Poroshenko (più volte ministro, anche con Janukovich) e Julija Tymoshenko, anche lei attiva nel settore dell’energia e già primo ministro. Oppure ancora Ihor Kolomojsky, il finanziere che ambiva al predominio.

Questi e altri personaggi avevano bisogno che in Ucraina cambiasse tutto affinché non cambiasse nulla e loro potessero continuare a dominare la scena. Come sostiene Katchanovski, “gli oligarchi erano e sono degli opportunisti, non avevano un’ideologia o degli alti ideali, volevano solo conservare il potere oppure ottenerne di più”. L’Euromaidan, ai loro occhi, aveva senso solo se si fosse concluso con un ribaltone completo degli equilibri (perversi) in vigore. Ognuno agì a modo proprio. Tutti, in un modo o nell’altro, ebbero come interlocutori i movimenti della destra nazionalista estrema, come Svoboda e Pravy Sektor, elementi decisivi nella gestione, nella radicalizzazione e poi nella vittoria sul campo della protesta.

Non a caso uno dei tre leader che avevano trattato con Janukovich nella giornata fatale del 21 febbraio era Oleh Tiahnybok, leader di Svoboda e in precedenza tra i fondatori del Partito Social-Nazionale d’Ucraina. Kolomojsky li conosceva bene, perché aveva usato molti dei loro uomini come milizia privata per la protezione delle sue aziende e, anche, per regolare i conti con avversari riottosi o violenti.

Quegli stessi uomini, pochi mesi dopo, andranno a formare i battaglioni, finanziati da Kolomojsky, contro i separatisti del Donbass. Anche Poroshenko e la Tymoshenko avevano confidenza con i movimenti della destra, fin dai tempi (2005-2010) della presidenza di Viktor Jushchenko. Poroshenko era stato protagonista della campagna elettorale di Jushchenko, appoggiata da tutti i movimenti e i leader della destra, Tiahnybok compreso. E la Tymoshenko, eroina del nazionalismo ucraino pre-Maidan, era stata in quel periodo primo ministro.

Non a caso nel 2010, alla scadenza del mandato, Jushchenko volle “ringraziare” insignendo del titolo postumo di Eroe dell’Ucraina non solo Stepan Bandera, fondatore nel 1941 dell’Esercito insurrezionale ucraino, ma anche Roman Shukhevyč, il suo comandante militare, che al seguito dei nazisti aveva partecipato a pogrom di ebrei ucraini e di polacchi.

L’importanza della destra estrema nello svolgimento e nell’esito dello Euromaidan fu poi riconosciuta al momento di formare il primo governo dopo la cacciata di Janukovich: a uomini di Svoboda, che di lì a poco avrebbe ottenuto un modesto 4,71% alle elezioni politiche, andarono i posti di vice primo ministro, ministro dell’Agricoltura e ministro dell’Ambiente, nonché le cariche di segretario del Consiglio di sicurezza e procuratore generale. Di Svoboda erano anche i governatori di Rivne, Poltava e Ternopil’.

Senior correspondent

Fulvio Scaglione