USA2024, Biden nel panico

Il presidente uscente teme la candidatura come indipendente di Kennedy jr, escluso dalle primarie democratiche. Il partito sta facendo di tutto per osteggiarlo perché teme un travaso di voti che finirebbe per favorire Trump.

Nella corsa presidenziale americana, Joe Biden e i suoi alleati hanno sempre più paura di Robert F. Kennedy Jr. Il candidato indipendente – uno dei tre che potrebbero sottrarre voti ai democratici e ai repubblicani – è considerato la minaccia più seria al sistema bipartitico dai tempi di Ross Perot, all’inizio degli Novanta, quando il presidente uscente Bush padre si ritrovò sconfitto da Bill Clinton. RFK Jr. non ha la possibilità di vincere veramente, ma il suo messaggio anti-sistema e anti-guerra potrebbe attirare un numero importante di disillusi, cambiando le dinamiche della corsa alla Casa Bianca.

Nel mondo democratico, le preoccupazioni sono andate oltre, portando alla creazione di una vera e propria mobilitazione per affossare la campagna di Kennedy. Vari gruppi legati al partito hanno avviato operazioni non solo per scoraggiare gli elettori dal sostenere RFK Jr., ma anche per impedirgli di partecipare alla corsa nel maggior numero possibile di Stati. Si sta agendo a livello legale per contestare la sua presenza sulla scheda elettorale, sfruttando il sistema americano che rende la vita difficile per i candidati minori. Quest’anno la battaglia promette di essere feroce: Kennedy attrae circa il 10 per cento nei sondaggi nazionali, e i democratici temono che il suo impatto possa influenzare il risultato a novembre, come è già successo nel 2000 ai danni di Al Gore e nel 2016 a spese di Hillary Clinton con outsider che godevano di un seguito molto più ridotto.

Candidarsi come indipendente negli Stati Uniti è tutt’altro che facile. I due grandi partiti, democratico e repubblicano, hanno una struttura nazionale e come tali sono già riconosciuti dai vari Stati. Questo permette loro di avere i propri candidati sulla scheda elettorale in modo automatico, sulla base del sostegno popolare ottenuto in passato.

Per gli altri, la strada è molto più complicata. In California, ad esempio, ci sono due opzioni: si può creare un partito ad hoc e raccogliere 75 mila firme da elettori che si riconoscono in esso. Oppure è possibile procedere senza un partito, ma servono a quel punto 219 mila firme da raccogliere entro un periodo definito di tre mesi e mezzo.

Altri Stati hanno requisiti simili, magari con numeri più bassi ma con vincoli di vario tipo: le firme devono essere distribuite uniformemente nello Stato, oppure devono essere depositate con un anno di anticipo. L’obiettivo, non troppo nascosto, è quello di escludere i partiti e i candidati minori.

La campagna di RFK Jr. conosce bene tutti i meandri del sistema, e i suoi sostenitori si sono organizzati per garantire la presenza sulla scheda elettorale in più Stati. Ad oggi, però, ha soddisfatto i requisiti solo nello Utah, pur dichiarando di essere già pronta a qualificarsi in vari altri Stati.

Kennedy conta sul sostegno di una Super PAC, cioè un comitato esterno che può raccogliere grandi quantità di denaro ma che non può coordinarsi formalmente con il candidato. Il gruppo “American Values 2024” sta lavorando instancabilmente per assicurare la presenza di Kennedy in lista, criticando nel contempo il partito democratico per i suoi sforzi volti a limitare la partecipazione democratica.

Il successo non è garantito. Ci sono diversi gruppi attivi nel contrastare Kennedy e gli altri candidati minori, come Jill Stein (Verdi) e il professore attivista Cornell West. Uno di questi è “American Bridge”, che ha assunto noti avvocati per cercare cavilli legali e contestare la qualificazione del candidato ‘scomodo’ in numerosi stati. Anche “Third Way”, un gruppo molto vicino alla Casa Bianca, che raccoglie centristi e moderati avversi alle politiche progressiste, ha lanciato una campagna per bloccare i candidati indipendenti. Ed è stato creato perfino un altro Super PAC, “Citizens to Save our Republic”, che sta raccogliendo fondi per combattere contro la presenza degli outsider.

La filosofia viene spiegata da Richard Gephardt, ex deputato democratico e fondatore del Super PAC: “A volte nella vita, non si ottengono due buone scelte. Non si ottiene neanche una buona scelta… ma non scegliete una strada che riporti in carica qualcuno che ha cercato di rovesciare il governo federale.” Il riferimento, palese, è all’eventualità di un successo di Trump.

Anche il Democratic National Committee ha creato una struttura interna con il compito di monitorare e rispondere ai candidati minori. Si vuole coordinare gli sforzi tra i vari gruppi, e si vedono già delle pubblicità che mirano a collegare RFK Jr. a Trump, dicendo che il sostegno per Kennedy porterà al ritorno del tycoon alla Casa Bianca.

Le paure dei dirigenti democratici sono in parte comprensibili, visto che i sondaggi indicano che Kennedy potrebbe sottrarre un numero significativo di voti a Joe Biden. Difficilmente Donald Trump può superare il 47/48 per cento del voto popolare a livello nazionale, ma la presenza di candidati alternativi offrirebbe uno sbocco per gli elettori indecisi e scontenti della scelta tra due candidati anziani e poco popolari. In quel caso, la base limitata ma solida di Trump potrebbe bastare per vincere la maggioranza dei voti dei grandi elettori.

Tuttavia, come sottolineano i sostenitori di RFK Jr., lavorare per bloccare in tutti i modi i candidati minori va decisamente contro lo spirito della democrazia. I cittadini lo noteranno, e molti si chiederanno perché il partito democratico non si concentra sulla sostanza delle posizioni politiche, cioè i motivi per votare il loro candidato.

Si è parlato molto di Kennedy sulla stampa a seguito dell’annuncio, il 26 marzo, della candidata vice presidente Nicole Shanahan, personaggio poco noto al grande pubblico. La scelta sembra dettata principalmente da considerazioni finanziarie, vista la capacità di Shanahan – avvocato, manager di punta nel settore tecnologico, ex moglie del cofondatore di Google –  di fornire ingenti fondi alla campagna elettorale. I primi sondaggi non indicano un cambiamento nel livello di sostegno per RFK Jr., ma nemmeno nel modo superficiale in cui viene trattata la sua figura. Infatti i media mainstream sembrano intenti a ripetere gli errori commessi nel 2016 con la candidatura di Donald Trump. Allora (come in parte anche oggi), si parla soprattutto delle posizioni più estreme e delle provocazioni del tycoon, tralasciando gli argomenti molto efficaci che utilizza per vincere tra la classe lavoratrice: la deindustrializzazione del paese grazie alla globalizzazione e la politica fallimentare degli interventi militari all’estero.

Quando si parla di Robert Kennedy sembra d’obbligo bollarlo come complottista che si oppone ai vaccini, avversa l’industria farmaceutica e lancia teorie stravaganti sull’origine del Covid-19. Si tralascia, invece, il messaggio che attira molti elettori: l’obiettivo di “porre fine alle guerre infinite“, facendo riferimento a suo zio, JFK, che voleva fermare la spinta degli apparati istituzionali verso “un costante flusso di guerra“. Kennedy chiede un “nuovo movimento per la pace“, invocando un ruolo diverso per gli Stati Uniti nel mondo, e vuole spezzare il “connubio corrotto” tra le grandi corporations e le istituzioni di governo.

E’ un messaggio che può fare breccia nell’opinione pubblica, soprattutto nel momento in cui il presidente Biden deve affrontare una rivolta tra gli elettori democratici per via del sostegno politico e materiale ad Israele nella sua sanguinosa guerra a Gaza. In più c’è la crescente opposizione agli aiuti per l’Ucraina, per non parlare della convinzione bipartisan che si sta andando verso una guerra con la Cina.

I democratici sono giustificati nell’avere paura di RFK Jr., ma in una democrazia occorre rispondere sui temi sostanziali piuttosto che dedicarsi a sotterfugi per escludere i candidati che non seguono la linea dominante di Washington.

 

Analista politico americano, Università Cattolica di Milano. Autore di Perché vince Trump (2016).

Andrew Spannaus