1994-2024: Ruanda trent’anni dopo

Esattamente trent'anni fa l'ex colonia belga precipitava nel più cruento conflitto interetnico della storia africana. Un genocidio senza precedenti. Una pagina buia anche per la comunità internazionale. Da allora il paese è guidato con il pugno di ferro dall'ex comandante Kagame. Un leader corteggiato in Europa.

Nella primavera di trent’anni fa, il mondo fu scosso da una delle più spaventose tragedie della nostra epoca: il genocidio in Ruanda. Dai primi di aprile all’inizio di giugno centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini furono massacrati. La macabra contabilità arrivò a un milione di corpi, per lo più smembrati all’arma bianca. Lo scontro etnico fra le etnie Tutsi e Hutu fu provocato dalla lunga lotta per il potere nel Paese e nel vicino Burundi. Un assurdo equilibrio dopo il dominio coloniale del Belgio aveva agevolato il dominio delle élite Tutsi in Burundi e il controllo militare degli Hutu in Ruanda, senza tenere in alcun conto lo squilibrio etnico e territoriale in entrambi i Paesi.
In Ruanda, i Tutsi ebbero la peggio, essendo le milizie Hutu e l’esercito regolare armati e politicamente sostenuti dalla Francia del presidente François Mitterrand, su cui pesa una grande corresponsabilità della tragedia. Corresponsabilità ormai accertata da ricerche storiche e dossier finalmente pubblici. La commissione istituita dall’Eliseo ha evidenziato “il sostegno di un regime che ha pianificato la preparazione del genocidio”.
Tutto cominciò la sera del 6 aprile, quando l’aereo del presidente del Rwanda, Habyarimana, un hutu, venne abbattuto da un missile. Il presidente tornava da una conferenza in Tanzania, ennesimo tentativo di costruire un accordo fra fazioni etniche e politiche: la maggioranza Hutu, al potere, e la minoranza Tutsi, esclusa dalla vita sociale e decimata da massacri ed esodi dal tempo dell’indipendenza dal Belgio. L’abbattimento dell’aereo, mai precisamente ricostruito, fu la scintilla di uno sterminio che, sotto gli occhi di un modesto contingente dell’ONU, si preparava da tempo, nutrito dalla propaganda e da generose forniture di armi all’esercito regolare e agli squadroni della morte, decisi a chiudere la partita con i Tutsi.
Ma i Tutsi si riorganizzarono nel vicino Uganda, la diaspora fornì volontari e armi e alla fine ebbero la meglio, approfittando anche dell’intervento d’interposizione organizzato, sia pure in ritardo, dalla Francia con l’ “operazione Turquoise”.
Li guidava Paul Kagame, un giovane ufficiale educato negli Stati Uniti. Nella tenda da campo, prometteva rinascita del Paese, riconciliazione e democrazia. Da colonnello è diventato presidente e – elezioni dopo elezioni – lo è ancora. Da trent’anni, il Ruanda conosce pace, sicurezza e prosperità mantenendo l’ordine all’interno ed esportando le proprie capacità militari all’esterno. È un curioso caso da laboratorio africano: un regime autoritario, consolidato dalla memoria dei massacri che sconsiglia agitazioni sociali e zittisce gli oppositori; illuminato quanto basta da utilizzare bene investimenti e aiuti dall’estero; spregiudicato fino al punto da gestire a pagamento flussi di migranti da Danimarca e Gran Bretagna, (con accordi simili a quello Italia/Albania).
L’esercito ruandese è efficiente e ben armato. Il Paese a forma di cuore sta diventando il gendarme dell’Africa, una piccola Prussia, impegnata in missioni di interposizione e in aggressive operazioni nella vicina Repubblica democratica del Congo, a sostegno dei ribelli del movimento M23. La posta in gioco sono le immense ricchezze minerarie di quel Paese. È lo sconvolgente paradosso del genocidio: fatti i processi, compiute vendette e rivalse, il piccolo regno di Paul Kagame è diventato uno Stato modello, non solo in rapporto a standard africani. Il Ruanda è una delle economie più dinamiche dell’Africa, con una crescita media che ha superato il 7% annuo negli ultimi due decenni. L’aspettativa di vita è aumentata da 50 a 69 anni. L’ultimo rapporto della Banca Mondiale ha classificato il Ruanda al 38° posto su 190 Paesi e al secondo posto tra i Paesi africani dopo le Mauritius. Il numero di famiglie che accedono all’elettricità è passato dal 10% del 2010 al 75,3% dell’ottobre 2022. Circa l’87% degli adulti ruandesi (6,2 milioni) ha accesso a un telefono cellulare.
Il Presidente francese Macron ha inviato 495 milioni di dollari in aiuti allo sviluppo per il Ruanda, con l’evidente scopo di chiudere il contenzioso sulle gravissime responsabilità della Francia.
Dopo aver compiuto missioni in Repubblica Centrafricana e Mozambico, il Ruanda sta cercando di imporsi anche nel Sahel, infestato da gruppi islamici radicali, in particolare in Mali, Burkina Faso e Benin. Secondo l’Istituto francese di relazioni internazionali (IFRI), il Ruanda è il quinto maggior contributore alle missioni Onu nel mondo e il secondo nel continente. Nonostante il loro numero ridotto, i soldati ruandesi si sono guadagnati una reputazione di eccellenza. Le missioni di pace delle Nazioni Unite sono spesso criticate, mentre quelle dell’Unione Africana spesso inefficaci. La cooperazione bilaterale dà invece qualche risultato.
Ma è chiaro che il Ruanda non si accontenta di fare gratuitamente favori agli altri Paesi. La presenza in Mozambico e nella Repubblica Centrafricana ha favorito l’accesso ad attività minerarie e agricole, ha permesso di firmare contratti per le infrastrutture e relazioni commerciali. Ed è tutt’ora sul tappeto il rapporto dell’Onu che stigmatizza la lunga ingerenza militare nella Repubblica democratica del Congo.
I paradossi non finiscono qui. Nella gerarchia degli aiuti e degli investimenti, la coscienza del mondo (e della Francia) ha privilegiato il Ruanda.
Ma negli ultimi trent’anni è cambiata anche la geopolitica dell’Africa. Le sfere d’influenza e le vecchie logiche coloniali sono state stravolte dalle enormi capacità di penetrazione finanziaria e logistica della Cina e dalle spregiudicate operazioni dei mercenari russi della Wagner. In questo nuovo disordine si è imposta, soprattutto nell’area del Sahel, la presenza della guerriglia islamica che ha favorito colpi di stato per lo più a spese dei vecchi regimi amici della Francia.
I colpi di Stato in Gabon, Mali e Niger sono gli ultimi di una serie, nove negli ultimi tre anni. In gioco ci sono enormi interessi energetici e minerari, ma anche il contenimento dell’islamismo radicale e dei flussi migratori ingigantiti dall’instabilità politica ed economica. “C’è un’epidemia di putsch in tutto il Sahel” ha ammesso Macron. I torti e i limiti della politica francese in Africa vengono da lontano, basti ricordare le relazioni commerciali con le élite, spesso di casa a Parigi quando si tratta di trasferire in Francia ricchezze personali e fare investimenti immobiliari o firmare contratti per armamenti. A volte, il passato non passa.

Editorialista del Corriere della Sera

Massimo Nava