Usa2024, corsa a rischio per Biden e Trump

Biden sotto attacco. Le sue condizioni allarmano il partito democratico. Ma solo lui può decidere se ritirarsi. Trump ne approfitta ma deve fare i conti con il disagio di molti elettori conservatori.

Dopo le prime votazioni nel partito repubblicano Donald Trump ha già ipotecato la nomina del partito per le elezioni presidenziali di novembre. Nei caucus dell’Iowa ha distanziato di 20 punti Ron DeSantis, che si è ritirato dalla corsa pochi giorni dopo. Nel New Hampshire ha fermato l’ascesa di Nikki Haley, e ora si prepara per le prossime primarie con un grande vantaggio nei sondaggi, rendendo difficile ipotizzare una gara veramente combattuta.

Molti nel partito cominciano a coalizzarsi attorno a Trump, pur con tanti dubbi sulla sua capacità di vincere contro i democratici. Resiste una minoranza, sia di elettori che di donatori, che incoraggia Haley ad andare avanti. Alcuni sono convinti che Trump potrebbe inciampare a causa dei suoi guai giudiziari, e altri che sia necessario fermarlo comunque per il bene del Paese.

L’antipatia tra i due candidati è tangibile, con gli insulti che si intensificano di settimana in settimana. L’ex presidente chiama Haley “cervello di gallina” e fa pressione perché ammetta la sconfitta. L’ex ambasciatrice all’Onu accomuna Trump e Biden definendoli dei “vecchi brontoloni” e mettendo in discussione le facoltà mentali dell’avversario.

Le offese sono la norma quando si compete con Donald Trump, ma la grande attenzione dedicata allo scontro sulla stampa rischia di offuscare la sfida anche sui contenuti. Qui si vede il grande problema che ancora affligge il partito repubblicano. Trump riprende i suoi grandi successi della prima campagna elettorale, del 2015/2016, bollando Haley come una guerrafondaia per le sue posizioni interventiste in politica estera e lanciando pubblicità televisive che l’accusano di voler tagliare la sanità e le pensioni pubbliche.

Sono affermazioni che pungono, poiché la candidata preferita dei repubblicani tradizionali si focalizza effettivamente sulla necessità di tagliare il bilancio, compreso il welfare, e sulla sfida mondiale contro i nemici della democrazia: Russia, Cina e Iran. Trump invece promette di negoziare la pace. Afferma che porrebbe fine alla guerra in Ucraina entro 24 ore, e che Hamas e Iran non avrebbero mai sfidato Israele e gli Usa se lui fosse stato alla Casa Bianca. Sono promesse dubbie, visto per esempio le sue responsabilità per aver peggiorato i rapporti con i palestinesi e con Teheran, ma agli occhi della base repubblicana le sue parole hanno una certa credibilità in quanto è stato il primo presidente in 40 anni a non aver iniziato una nuova guerra.

Haley intende andare avanti almeno fino al Super Tuesday, il 5 marzo, quando voteranno 15 stati e un territorio estero che assegneranno oltre un terzo dei delegati validi per la Convention di luglio. Ma la probabile vittoria di Trump si fa già sentire dentro il partito. Quando un gruppo di senatori ha stilato un compromesso con i democratici per affrontare le grandi difficoltà sul confine con il Messico, Trump ha messo pressione per fermarli onde non regalare a Biden una vittoria utile per la campagna elettorale. E nel partito sono già iniziati ritiri e rinunce tra chi non ha il favore dell’ex presidente.

Rimangono, però, dei grandi punti interrogativi sulla forza di Trump. I sondaggi ci dicono che una fetta significativa dei repubblicani lo abbandonerebbe se fosse condannato per un reato in tribunale, e che a livello nazionale oltre il 60% degli elettori non pensa che dovrebbe tornare alla Casa Bianca in una tale situazione.

Di contro, ci sono segnali positivi di aumento dei consensi tra i giovani e tra le minoranze ispaniche e afroamericane, ma è probabile che i guadagni tra quelle fasce saranno incrementali e insufficienti per superare l’avversione nei confronti di Trump della maggioranza della popolazione.

Molto dipenderà dai giudici della Corte Suprema: se lasceranno che Trump vada al processo entro pochi mesi, le sue prospettive subiranno un bel colpo. Di contro, potrebbero di fatto rimandare il tutto a dopo le elezioni, lasciando che siano i cittadini a giudicare Trump il 5 novembre. Va considerato anche il fattore dei candidati terzi, come RFK Jr., che avranno un impatto importante sugli equilibri in vari stati.

C’è poi un’altra grande speranza per Trump, emersa con la pubblicazione del rapporto del procuratore speciale Robert Hur, l’8 febbraio, riguardante la gestione di documenti classificati da parte di Joe Biden dopo aver lasciato la vicepresidenza nel 2017. La relazione ha stabilito che non ci sono state attività che meritano l’incriminazione, poiché il quadro che emerge è quello di “un uomo anziano ben intenzionato con una memoria scarsa”.

Le parole sono esplose come una bomba sulla scena americana. Biden è il presidente più anziano nella storia degli Stati Uniti, e già fatica a combattere l’immagine di debolezza e declino fisico. Una conferma formale di questa impressione può danneggiarlo molto presso gli elettori.

Il presidente ha reagito con forza, respingendo le critiche gratuite del procuratore, ma peggiorando la situazione con altre gaffes, scambiando ad esempio il presidente dell’Egitto con quello del Messico. I democratici sottolineano che tutti possono dimenticare i dettagli di eventi minori accaduti anni fa, e che il procuratore sarebbe di parte, considerando che nel suo precedente incarico era stato nominato da Trump.

Ma ormai il danno è fatto, e questo potrebbe essere un momento cruciale nella campagna elettorale del 2024, quando comincia un serio tentativo di preparare la strada per una candidatura alternativa, soprattutto se Biden dovesse sembrare in difficoltà con l’arrivo dell’estate.

Le considerazioni sulle implicazioni di un tale cambiamento sono molte, ma non devono spaventare. Non ricandidare un uomo di quasi 82 anni non invalida quanto fatto finora. Il successo di Biden nel lanciare una nuova politica industriale può essere difeso ma anche utilizzato come prospettiva futura. Un cambio di candidato permetterebbe anche di liberare, in parte, il partito democratico dalla crescente insoddisfazione di chi critica la troppa vicinanza al governo israeliano di Benjamin Netanyahu, il quale rischia di danneggiare pesantemente Biden in alcuni stati chiave.

La strategia più efficace sarebbe quella di aprire i giochi in prossimità della Convention democratica, per evitare uno scontro lungo e lacerante all’interno del partito. Dovrebbe essere scelto rapidamente il candidato che riesce meglio a combinare i due elementi fondamentali per l’elettorato: il populismo economico e la moderazione culturale, cercando di ottenere un ampio consenso nel paese.

Non basta infatti essere una faccia nuova o “diversa”; occorre costruire la narrazione giusta per affrontare i problemi del paese ed evitare una ricaduta verso le politiche all’insegna della globalizzazione dell’epoca pre-populista.

Come dimostra l’andamento dello scontro nel campo repubblicano, sotto la superficie ci sono dei temi fondamentali che spesso pesano più dell’immagine esterna dei candidati, minuziosamente raccontata dai grandi media.

Analista politico americano, Università Cattolica di Milano. Autore di Perché vince Trump (2016).

Andrew Spannaus