Biden e Trump: così forti, così vulnerabili

A un anno dalle elezioni presidenziali del 2024 i candidati sono gli stessi del 2020.
Fin qui ineludibili per i rispettivi schieramenti, sono entrambi in difficoltà. Nei sondaggi e nei loro partiti. Che cercano, ma ancora non trovano, nomi nuovi per la Casa Bianca.

Biden e Trump. Una riedizione delle elezioni del 2020 che piace poco agli elettori americani e preoccupa il resto del mondo. Come è possibile che il paese a cui tutti guardano, che pretende di fare da esempio per il mondo, vedrà sfidarsi un presidente uscente visibilmente anziano e a volte confuso, e un ex presidente che rischia una o più condanne penali per aver messo in discussione le stesse istituzioni democratiche?

Per rispondere a questa domanda e trarre delle conclusioni sullo stato di salute della superpotenza americana, occorre riconoscere la portata dei cambiamenti introdotti negli ultimi anni da Donald Trump prima, e da Joe Biden successivamente. Scopriremo che rispetto alla svolta avviata dopo

quaran’anni di indebolimento sostanziale causato da politiche post-industriali, le divisioni che lacerano la società americana oggi sono, in un certo senso, secondarie. Tuttavia, rappresentano un motivo di forte preoccupazione mentre emerge una nuova sfida geopolitica, che richiede chiarezza

negli obiettivi e una maggiore capacità di competere a livello globale.

A seguire le battaglie politiche e culturali nell’America di oggi, potrebbe sembrare che il paese sia non solo profondamente diviso, ma addirittura a rischio di una rottura violenta dell’equilibrio tra le due anime della società: i centri urbani, cosmopoliti e progressisti, contrapposti alle zone più rurali, conservatrici e auto-referenziali. Non si può negare l'esistenza di un divario tra due diverse visioni della società, e anche nella percezione dei cambiamenti dei decenni recenti. Per semplificare, l’idea di un mondo sempre più interconnesso, con un mescolamento delle culture e anche nuove forme di identità personali, sembra ben lontana da una comunità ancora legata ad una visione tradizionale, spesso religiosa in cui occorre difendersi dalle minacce del mondo moderno.

La domanda è se si tratta di un conflitto insanabile, e anche se questa divisione rappresenti veramente una caratteristica fondamentale del paese oggi. Ci sono ragioni di sperare che non sia così, ossia che esista la possibilità di un progresso generalizzato della società americana che possa attenuare le differenze, rendendo meno lacerante anche il conflitto culturale.

Per cominciare a comprendere il perché, torniamo al 2016, l'anno in cui il recente fermento è esploso, con la Brexit nel Regno Unito e;elezione di Donald Trump negli Stati Uniti.

Un aspetto fondamentale da ricordare è che la rivolta politica di quel momento, seguita dalla crescita di altri movimenti simili in vari paesi occidentali, non si è verificata all’interno di un unico schieramento. Negli Stati Uniti, per esempio, il ‘socialista’ Bernie Sanders è riuscito a ottenere il 43% dei voti nelle primarie democratiche, opponendosi anch’egli ai grandi accordi commerciali e chiedendo la difesa e il potenziamento dello stato sociale.

Le differenze culturali tra i due schieramenti sono evidenti, ma sono le similitudini che dovrebbero farci riflettere sulle istanze di quella parte della popolazione che si sente lasciata indietro dai cambiamenti economici della globalizzazione e che non ha più fiducia nelle istituzioni politiche.

Questo era un segno di un potenziale riallineamento della geografia politica, con una divisione più basata sul contrasto tra gli ‘outsider’ e l’élite piuttosto che sulla contrapposizione tra destra e sinistra. Tale tendenza è stata confermata dalle analisi del flusso dei voti, che hanno rivelato che 8-9 milioni di americani che avevano votato per Barack Obama hanno successivamente sostenuto Trump, indicando che la promessa di cambiare le istituzioni può avere un peso maggiore rispetto all’identificazione ideologica e culturale.

Oggi, a distanza di 7 anni, il riallineamento risulta solo parziale: il partito repubblicano è diviso tra la fazione trumpiana e i repubblicani più tradizionali, pronti a voltare pagina anche per paura di una nuova sconfitta nel 2024. Trump sfida l’establishment ancora su qualche tema, per esempio promettendo di porre fine alla guerra in Ucraina. Ma ormai lui ha bisogno di vincere per evitare la prigione, mentre a Washington si ragiona su come disinnescare la minaccia che ha dimostrato di rappresentare per le istituzioni.

Sul lato democratico, invece, è stata fatta una maggiore sintesi tra le posizioni più progressiste e quelle moderate, soprattutto su questioni economiche. Joe Biden ha abbracciato l’idea di un cambiamento profondo dell’economia americana, promuovendo forti investimenti pubblici ed un aumento della spesa sociale, mentre sui temi culturali come l’anti-razzismo e i diritti LGBT, cerca di evitare le posizioni più estreme. L’obiettivo è di produrre miglioramenti tangibili e di mantenere il dialogo con la cosiddetta ‘classe lavoratrice bianca’, tenendo ben presente che la sfiducia generalizzata verso l’establishment può portare un numero significativo di voti ai candidati minori. Il maggiore impatto potrà venire da Robert F. Kennedy Jr, che ha deciso di correre come indipendente anti-sistema, rappresentando un rischio per entrambi i partiti.

Il campo in cui Biden è più convinto di dover proseguire è quello della svolta impressa alla politica economica del paese. Non lo ammetterà mai, ma l’impulso per attuare una serie di correzioni al modello liberista e mercatista della globalizzazione è venuto proprio dal suo predecessore; ed è stato Trump ad inaugurare la stagione dei grandi interventi pubblici e soprattutto del ripensamento degli accordi commerciali internazionali – seppur con metodi a volte rozzi.

L’amministrazione Biden ora abbraccia il cambiamento di paradigma, la nuova politica industriale per rilanciare la manifattura in settori chiave. E afferma che la ricostruzione della classe media è la chiave anche per rimanere forti a livello internazionale.

L’impostazione piace poco a chi rimane legato ai modelli del libero mercato e avversa il ruolo maggiore dello Stato, ma ormai il nuovo corso è definito, confermato dall’accordo sostanziale tra le istituzioni pubbliche di aumentare fortemente la capacità nazionale nei settori tecnologici che determineranno il successo o meno nella competizione con la Cina.

Il nuovo approccio ‘post-globale’ degli Stati Uniti conferma che il paese è riuscito ad affrontare la sfida populista per correggere la rotta anche nella politica estera, con il ritiro dai conflitti nel Medio Oriente allargato e lo spostamento delle attenzioni all’Asia (mentre sull’Ucraina la tensione tra una posizione interventista e quella ‘realista’ che caldeggia la diplomazia si porrà sempre con più forza).

Dopo le prime mosse compiute durante il mandato di Barack Obama, i due principali protagonisti di questa svolta sono stati proprio Donald Trump e Joe Biden. Non mancano i personaggi che potrebbero prendere il loro posto, ma da entrambe le parti le considerazioni più pragmatiche continuano a prendere il sopravvento: più ci si divide nelle primarie, più ogni partito rischia di farsi male in vista del novembre 2024.

Così l’America potrebbe rivivere lo scontro del 2020, questa volta con la minaccia Trump all’ennesima potenza, e l’incognita di un Biden molto debole agli occhi degli elettori. Perlomeno possiamo riconoscere che nonostante la loro età anagrafica, entrambi hanno dato un contributo al rinnovamento del paese, facendo importanti passi in avanti in risposta alla scossa populista e alle nuove sfide strategiche.

Analista politico americano, Università Cattolica di Milano. Autore di Perché vince Trump (2016).

Andrew Spannaus