India, un gigante docile?

Nel paese dei molti record, a cominciare da quello demografico, le elezioni sono in corso e dureranno sei settimane. Prevista la vittoria del partito del premier Modi. Da capire, invece, come il nazionalismo impregnato di un rinnovato fervore religioso vorrà perseguire l'“Indian dream”

Quando si guarda all’India si viene sempre colti da un senso di vertigine. Si pensi alle elezioni che si stanno tenendo da metà aprile: 986 milioni di elettori – l’equivalente delle popolazioni riunite di Stati Uniti, Unione Europea e Russia -, che voteranno nell’arco di sei settimane in più di un milione di seggi. Ovvero il più grande evento elettorale nella storia dell’umanità. Che si svolge ancora alla maniera tradizionale, nonostante l’“India Stak”, il programma che sta dando vita ad una piattaforma unificata di software destinata a far transitare il paese del bufalo e dei villaggi nell’era digitale, un ecosistema informatico tra i più avanzati al mondo. I numeri “pesano”: saranno 470 milioni le donne e quasi 200 milioni gli elettori ventenni, di cui un decimo voterà per la prima volta.

Come è arrivato al voto il paese? Diviso. Più sotto il profilo politico che economico. Difatti, l’automobile dell’economia indiana ormai ha inserito il turbo: non solo lo scorso anno ha fatto registrare l’incremento di PIL più alto al mondo e quest’anno sfiorerà l’8 per cento di crescita, ma si moltiplicano le Silicon Valley interne ed un quarto di tutti coloro che nel 2024 nel mondo entreranno nel mondo del lavoro saranno indiani, il famoso dividendo demografico. I chiaroscuri nell’economia peraltro non mancano: la crescita indiana è succube del “capitalismo relazionale” caro al Primo Ministro Modi, che ha un occhio di riguardo, anzi due, per i “global Indians” che si arricchiscono con l’ancora forte protezionismo del mercato interno, tra i quali spiccano gli Ambani e gli Adani, i più ricchi miliardari d’Asia. Che peraltro non sono soli, dato che in India si creano milionari più che in Cina, secondi solo agli USA.

Inoltre, per il World Inequality Lab, diretto dall’economista Piketty, le diseguaglianze salariali e sociali sono più alte che durante il periodo del “British Raj”: nel 2022 l’1 per cento più ricco della popolazione deteneva il 40 per cento della ricchezza nazionale. Poi lo sviluppo viene pesantemente pagato con un crescente inquinamento: l’India ricorda oggi la Cina dei tempi bui, è il terzo paese più inquinato al mondo e Delhi è nella stessa posizione tra le capitali, mentre oltre il 90 per cento della popolazione respira un’aria malsana. Però la popolazione, l’“indiano medio”, crede, fermamente, nell’”Indian Dream”, si trasferisce in città, o nei suoi enormi slums, e manda i propri figli a studiare agli Indian Institute of Technlogy. E non hanno torto, perché sono numerosi e convergenti gli asset di cui gode il Paese: in 500 milioni parlano l’inglese e molti tra di loro parlano fluentemente di “globalizzazione”; è la nazione più giovane del mondo, condividendo il primato con diversi stati africani, ma con assai diverse prospettive di sviluppo; è l’unico paese che si possa permettere di rivaleggiare in modo aperto con l’Occidente quanto ad influenza culturale.

No, non sarà l’economia a destabilizzare la traiettoria indiana verso lo status di potenza globale. Piuttosto, è la dimensione politica che nel paese resta divisiva e rappresenta fonte di inquietudine per gli osservatori. Non perché vi siano dubbi sul fatto che Nerendra Modi per la terza volta sarà rinominato Primo Ministro dal suo partito, il BJP, destinato a vincere, se non stravincere, le elezioni per il rinnovo della Camera, il Lok Sabha. Quanto per il clima con il quale cui si giunge alla consultazione elettorale. Modi, al potere dal 2014, ha cambiato il volto dell’India, ne ha fatto un paese che sta correndo verso la modernità, sia pure con i prezzi accennati. Il risultato elettorale suggellerà un’epoca e consentirà di verificare la misura dell’effettivo consenso che egli riscuote con l’accelerazione cui sta sottoponendo i suoi connazionali. Le sfide sono molteplici e molte ancora aperte: modernizzazione vs tradizione, laicità vs confessionalismo, rinnovamento vs protezionismo.   Il programma di Modi è chiaro: puntare sul revivalismo hindu per fondere nazionalismo e fede e realizzare la modernizzazione economica e sociale, marginalizzando la “minoranza” musulmana additata come erede della dinastia Moghul che conquistò nel XV secolo l’India del nord e del colonialismo britannico. L’”India agli indiani” ovvero, secondo la vulgata accreditata, agli hindu: un laboratorio di nazional-populismo religioso che va a braccetto con la modernizzazione tecnologica. Dentro – non dietro – al quale fa capolino il pericolo di uno scontro di civiltà in una nazione mosaico, dove se è vero che l’80 per cento è costituito da hindu, le minoranze, a cominciare da quella musulmana – 200 milioni, che fanno dell’India il terzo paese “islamico” al mondo, dopo l’Indonesia e il Pakistan – sono sparse in tutto il subcontinente. Nessuna nuova “partition” sarebbe possibile, il che rischierà di reinnescare la miccia latente dell’estremismo religioso, tanto spesso esplosa in passato, in barba al mito – occidentale – dell’India “paese mite”. Un cruciale esperimento di convivenza alle viste, immensamente più grande, per dimensioni certamente, ma forse anche per prospettive politico-strategiche, della guerra tra Israele ed Hamas.  Le tensioni religiose sono più profonde di quelle propriamente politiche, anche se tra gli osservatori hanno destinato sconcerto – ne ha fatto stato anche il Dipartimento di Stato americano – le misure di carcerazione per accuse di corruzione per alcuni leader dell’opposizione durante la campagna elettorale. A cominciare da quella che riguarda Arvid Kejriwal, il leader del partito “Aam Aadani” – “the common man party” – che governa la città metropolitana di Delhi ed è maggioritario nel Punjab. Una figura significativa nel panorama della debole e frastagliata coalizione dei partiti di opposizione, guidata dal Congresso che fu della dinastia Gandhi, sotto l’acronimo I.N.D.I.A.

La politica estera sta rimanendo sullo sfondo nella competizione elettorale e le eco dei carri armati che sferragliano nel Donbass ed a Gaza giungono sfocate a Mumbai o Varanasi, segno anche di un progressivo allontanamento dai canoni del “Washington Consensus”. Modi e la sua India intendono tenersi le mani libere in un mondo più apolare che multilaterale. Il G20 indiano dello scorso anno lo ha dimostrato. Modi sarà distante anni luce da Nehru, ma non ha dimenticato la lezione di questi, allora a capo del governo ad interim, che nel 1945 scrisse a Menon, nominato Ambasciatore alle Nazioni Unite, dandogli le seguenti istruzioni: “amici di tutti ma non dobbiamo allinearci né con Washington, né con Mosca”. L’India è non allineata da prima di diventare indipendente. Farebbero bene le Cancellerie occidentali a non coltivare illusioni.

A proposito di Occidente: non sarebbe sbagliato se si focalizzasse meglio sulla traiettoria indiana e dismettesse gli occhiali da miope. L’India viene da lontano ed ha tutte le intenzioni di andare lontano: è un Paese con il quale fare i conti. Non è una Cina di riserva, né un suo contrappeso. Potrebbero esserci delle sorprese. Ad esempio quella di constatare che, in una fase di ripiegamento della democrazia liberale nel mondo, di offuscamento dei valori stabiliti a Bretton Woods, il “festival della democrazia” in india, con le sue conseguenze ibride ed i suoi accenti esotici al nostro udito, potrebbe rappresentare un modello di abito adatto ad essere indossato in quell’88 per cento del mondo che non è occidentale. Una sorpresa di cui ci sarebbe bisogno…

ex Ambasciatore d'Italia in India e presso la Santa Sede

Daniele Mancini