Ha ancora un futuro l’Onu?

Il massimo foro sovranazionale è in crisi profonda. Nei conflitti in corso si conferma inadeguato per colpa della sua burocrazia ma soprattutto delle Grandi potenze. Unico rimedio, il ritorno allo spirito e alla lettera delle origini

È assai diffusa la delusione per l’incapacità dell’ONU di mettere un argine al diffondersi e all’aggravarsi dei conflitti che si vanno estendendo dall’Europa orientale al Medio Oriente. Il punto è che – come affermava Kissinger nel suo masterpiece sul concerto europeo del XIX secolo – un sistema di Stati per essere stabile e pacifico deve poter contare sull’impegno, a mantenerlo, dei maggiori fattori di potenza che ne sono parte e di un “common concept of legitimacy” che ne regoli le dinamiche.

L’ONU fu il punto di arrivo del programma della Carta Atlantica, proclamata da Franklin Delano Roosevelt e da Winston Churchill già agli inizi della Seconda guerra mondiale. L’intento era la “creazione di un sistema più ampio e permanente di sicurezza generale”, in cui venisse rispettato “il diritto di tutti i popoli di scegliere la forma di governo sotto la quale vivere”, favorendo “il godimento da parte di tutti gli Stati, grandi o piccoli, vincitori o vinti, dell’accesso, in condizioni di parità, al commercio e alle materie prime del mondo”.

Oltre alla rinuncia all’uso della forza, questi furono i due principali concetti di legittimità, posti alla base del progetto di un ordine internazionale, che sarebbero emersi alla fine del conflitto con la Germania di Hitler. L’esito della Conferenza di San Francisco del 1945 fu il risultato di un luogo lavoro di coordinamento e armonizzazione delle rispettive posizioni fra Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Cina. Quest’ultima inclusa in questo nucleo ristretto per la lungimirante insistenza di Roosevelt.

Pur dopo la scomparsa del suo più deciso sostenitore il progetto andò in porto, con l’approvazione di uno Statuto che si poneva a garanzia di quell’ordine internazionale liberale che anche i sovietici arrivavano a sottoscrivere. Con la garanzia, però, del diritto di veto sulle decisioni che potessero autorizzare l’uso della forza, riservato ai quattro fattori determinanti di potenza ipotizzati fin dalla prima pianificazione, ed esteso graziosamente anche alla Francia. I dissensi sulla sistemazione postbellica all’indomani del conflitto fecero venir meno quel “common concept of legitimacy” fra i quattro promotori originari, provocando una frequente paralisi dell’ONU per effetto del ricorso al veto prevalentemente da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, leader dei due blocchi
contrapposti che intanto si erano formati, Patto Atlantico e Patto di Varsavia.

Il superamento della crisi di Cuba, effetto della tensione dialettica fra i due blocchi, portava alla convocazione della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione Europea e al recupero, almeno in termini dichiarativi, dell’originario “common concept of legitimacy”, enunciato fin dalla preistoria dell’ONU nella Carta Atlantica. Con l’Atto di Helsinki del 1975 i sovietici e i loro alleati dell’Europa orientale aderivano ai principi del costituzionalismo liberale occidentale, approvando esplicitamente i due originari intenti di Roosevelt e Churchill sulla libertà dei popoli di scegliere liberamente la forma di governo sotto la quale vivere e di non subire discriminazioni nelle loro attività economiche. Successivamente, con Gorbaciov, si è arrivati alla collaborazione sovietica con gli occidentali al Palazzo di Vetro e al ripristino della reale efficacia delle funzioni dell’ONU. L’approvazione all’unanimità, nel novembre 1990, della risoluzione 678 per la soluzione della crisi del Kuwait, rappresentava uno spartiacque della storia.

In effetti, così come era stato ritenuto essenziale fin dalla prima ideazione dell’Organizzazione per la sicurezza collettiva, si era ricreata l’unità di intenti dei maggiori fattori di potenza del sistema internazionale: non tanto sull’operazione concreta di intervento militare nel Golfo, quanto sui valori istitutivi dell’ONU che erano alla base di quella convergenza, e cioè i valori del “liberal international order” ribaditi dall’Atto di Helsinki.

La mancata rielezione di Bush nel ’92 faceva però venir meno la coerenza degli Stati Uniti con quei valori. L’adozione delle politiche di regime change, e il bombardamento della Jugoslavia senza l’assenso del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, si ponevano in netta violazione dei dettami dell’Atto di Helsinki e dello Statuto delle Nazioni Unite. Davano invece vita ad una politica estera e di sicurezza americana non più ispirata ai tradizionali principi liberali, bensì ad un diverso ordine internazionale.

Questi sviluppi hanno fatto venir meno i due principi originari della Carta Atlantica, trasfusi nello statuto dell’ONU. Ma la crisi attuale dell’ONU è dovuta anche al mancato adeguamento dei suoi organi decisionali all’evoluzione prodottasi nel sistema internazionale, con l’emergere di nuovi fattori di potenza e di nuove aggregazioni di paesi ispirati da un comune concetto di legittimità. Le più significative sono il G7 e i BRICS, ambedue nelle loro dichiarazioni conclusive enunciano la propria visione dell’ordine globale. I BRICS ribadiscono l’esigenza di una piena osservanza dello statuto dell’ONU e del diritto internazionale, mentre il G7 afferma il proprio impegno per un ordine internazionale “rules-based”. Un allargamento degli organi decisionali dell’ONU e un’intesa volta ad accertare la compatibilità fra le “rules” del G7 e lo statuto dell’ONU renderebbe possibile, forse, il recupero del concetto di legittimità irrinunciabile per un sistema internazionale stabile e pacifico.

Storico Relazioni internazionali, Vicepresidente Comitato Atlantico, visiting Università di San Pietroburgo.

AntonGiulio de Robertis